La storia della Venusta veniva raccontata quando ero piccolo (sono del 1943) nella zona Strada Maggiore-Piazza Aldrovandi. Forse la sentii da mia nonna o forse da una sua coetanea. La ripropongo come me la ricordo…
Siamo attorno al passaggio del secolo, possiamo dire siamo nel 1900. La Venusta, lavandaia, vedova, che abitava in vicolo Borchetta, parallela a via Torleone (una di qua e una di là della chiesa di Santa Caterina) quel giorno era in agitazione: andava a riportare un bucato ad una signora che abitava a porta Santo Stefano, ma in tasca aveva una cosa che la teneva in ansia.

Fotografia dell’ingresso del Vicolo Brocchetta in Strada Maggiore tra Palazzo Massei e Chiesa Santa Caterina
Era una lettera di suo figlio che era lontano, militare, che le era appena stata recapitata. Lei, analfabeta, avrebbe dovuto attendere fino a sera, fino al ritorno di Ernesto, il vicino, impiegato al Dazio, che scriveva e leggeva per tutto il vicolo, per sapere cosa vi fosse scritto.
Si incamminò per la Fondazza e via del Piombo sempre col pensiero alla lettera, e alle notizie che poteva contenere. Costeggiando una casa con giardino vide un anziano signore dal viso severo e con una gran barba bianca che fumando un sigaro la guardava con bonomia e le sorrideva.
La Venusta vinse la soggezione e gli chiese: «Quel signore, sapete leggere?». Questa domanda oggi è impensabile, ma allora il tasso di analfabetismo era alto anche fra persone di un certo ceto e quindi legittima. Basti ricordare che al momento dell’Unità d’Italia (1861) il tasso di analfabetismo in Emilia-Romagna era attorno al 70%, e in Italia in generale era superiore. Nel 1911 in Emilia-Romagna era del 25%. La maggiore alfabetizzazione complessiva veniva dalla maggior frequenza scolastica delle giovani generazioni. Domandare a una persona anziana se sapesse leggere, era dunque normale.
Un “lettore” inatteso per Venusta
Tornando a Venusta, “Quel signore” sapeva leggere. Lei gli diede la lettera del figlio e apprese che stava bene e che, anzi, sarebbe ritornato dal servizio militare prima del previsto: a Pasqua anziché a Natale.
Inoltre “Quel signore” le disse che se ne avesse avuto bisogno si rivolgesse pure a lui per leggere altre lettere del figlio. La Venusta lo ringraziò, cercando di baciargli la mano che attraverso il cancello le restituiva la lettera: l’anziano signore la ritrasse bruscamente dicendole che queste cose non si facevano, la salutò e rientrò in casa.
La nostra lavandaia, sollevata, fece la sua commissione e ritornò in vicolo Borchetta come volando, a condividere con le colleghe e le vicine la sua gioia, dopo aver confidato loro la sua ansia. La Venusta era stata veramente fortunata: “Quel signore” sapeva veramente leggere bene.

Giosuè Carducci
Infatti, parlandone con le vicine, appurò che si trattava del Prof. Giosuè Carducci, che se ne stava nel giardino di casa sua.
La persistenza nella memoria popolare di questo fatterello dimostra anche che il legame fra Carducci e la città non fu solo di tipo accademico, ma che la fama del Poeta era trasversale a tutta la popolazione, anche la meno acculturata. Mia madre (che aveva la 5a elementare) mi ricordava sempre che Carducci aveva scritto: «Gli Italiani non ammirano, quanto merita, la bellezza di Bologna».
Di Venusta in Venusta… due nomi uguali, ma due storie differenti
E poi va bene, esiste anche un’altra storia legata al nome Venusta, che è quella cantata da Dino Sarti e che non è assolutamente pertinente con il racconto fatto e con Carducci. Va notato però, in questa canzone, come Venusta sia una donna meravigliosa, e non a caso è proprio il significato del termine venusta. E sebbene non sia pertinente alla storia raccontata, inseriamo comunque la canzone di Sarti perchè è anch’essa patrimonio della “bolognesità”.
