Quando nel 1989 uscì il brano “Shout”, i Tears for Fears non potevano immaginare del potente successo che avrebbe avuto, diventando una delle canzoni più iconiche degli anni ’80. Eppure, l’indimenticabile ritornello «Shout, shout, let it all out», condensava alla perfezione la filosofia che aveva dato origine al gruppo e alla canzone stessa. Infatti, in “Shout” si riscontra la consapevolezza che i traumi non affrontati continuino a governare la vita delle persone, e che solo il grido, simbolico o reale, funga da atto di liberazione.
“Shout” dei Tears for Fears (©You Tube)
Le origini psicologiche di “Shout”
“Shout” prende ispirazioni dalle esperienze personali di due componenti dei Tears for Fear, ovvero Roland Orzabal e Curt Smith. Infatti, i due musicisti condividevano il fatto di avere due padri molto autoritari, cosa che li rese molto vulnerabili. Da adolescenti entrarono in contatto con il lavoro dello psicologo americano Arthur Janov, creatore della terapia primaria. Questa riteneva che, per superare i traumi, bisognasse riviverli, portarli in superficie e, infine, liberarli attraverso il pianto e specialmente il grido. Questa idea colpì profondamente i due musicisti, tanto che il nome stesso del gruppo (letteralmente “lacrime per paure”) pare un diretto riferimento alla terapia di Janov.
“Shout” come traduzione musicale della terapia di Janov
Scritto principalmente da Roland Orzabal, “Shout” nacque come un invito alla protesta, un’esortazione a non subire passivamente le oppressioni interne o sociali, ma a dare grande voce ai propri sentimenti repressi. Dunque, una canzone che porta con sé rabbia, frustrazione, ma soprattutto catarsi. Tuttavia, non si tratta di un brano che richiama solamente lo sfogo emotivo, ma anche la riflessione prima dell’azione.
Quindi “Shout” non invita alla violenza, ma alla consapevolezza: gridare ciò che si prova per non trasformarlo in un comportamento distruttivo. Inoltre, il ritmo ripetitivo e il ritornello ipnotico accentuano la dimensione terapeutica del pezzo. Diviene quasi una sorta di mantra liberatorio che chiunque può cantare.
Il successo mondiale di “Shout”
“Shout”, registrata durante le sessioni del secondo album del gruppo, “Songs from the Big Chair” (1985), rese la band famosa a livello internazionale. Il sound si distaccava dal pop new wave del primo disco, abbracciando una dimensione aperta a influenze rock ed elettroniche. Pubblicata come singolo nel novembre 1984 nel Regno Unito e nel 1985 negli Stati Uniti, la canzone esplose rapidamente. Infatti, vinse le classifiche Billboard Hot 100 negli Stati Uniti, ma anche in numerosi paesi, come Canada, Germania e Paesi Bassi. Inoltre, il video che ritrae la band su una scogliera, diretto da Nigel Dick, contribuì alla diffusione del brano nell’età d’oro di MTV.
Un inno generazionale
“Shout” divenne un vero e proprio inno generazionale senza tempo. In un periodo solitamente ricordato per l’edonismo e la leggerezza, il brano rappresentava un’eccezione per la sua esortazione emotiva, politica ed individuale. Infatti, il ritornello divenne per i giovani un messaggio contro la repressione sociale, contro i governi, ma anche contro le oppressioni interiori di ogni individuo. Dunque, ancora oggi “Shout” resta attuale più che mai.